23 10 2023
Tradurre la nevrosi.
Georges Duhamel e le prospettive parigine
Ne L’ombra del vulcano (Einaudi, 2023) Marco Rossari ha scritto che «tradurre significa ripercorrere i passi di qualcun altro».: Ho pensato spesso a quest’immagine mentre traducevo Confession de minuit (Confessione di mezzanotte, Ago edizioni, 2023), e tuttora mi sembra combaciare perfettamente con la mia esperienza. L’ho interpretata a mo’ di scatola cinese: nel romanzo, il protagonista perlopiù cammina, e camminando pensa. Louis Salavin, questo è il suo nome, torna sui propri passi con un lungo flashback per raccontarli a un ignoto interlocutore. Fuori dalla finzione romanzesca c’è il percorso creativo del suo autore, Georges Duhamel; io mi sono inserita in fondo a questa serie, rintracciando i passi di entrambi. Ammiccando all’editore, direi che si tratta di un fil rouge che Ago ha abilmente ricucito.
Più di un anno fa, un tascabile grigio scuro ha attirato la mia attenzione all’interno di una bella libreria di Lione, vicino alla città vecchia. Oltre al formato, appena delle dimensioni di una cartolina, a colpirmi è stata la fotografia sulla copertina del libro. È una ripresa dall’alto di un angolo di città: sotto una scalinata, una strada si allunga tra un blocco di palazzi e i binari di una ferrovia. In fondo si scorge un uomo, di spalle, con le mani in tasca, su cui si disperde un banco di nebbia. Leggendo il romanzo, mi è sembrato di assumere la stessa posizione di chi aveva scattato quella fotografia: distante da quell’uomo, ero però sensibile a ogni suo movimento nello spazio che attraversava.
Come ho scoperto in seguito, l’autore dello scatto è Willy Ronis, un fotografo umanista (un collega di Cartier-Bresson e Doisneau) che nel secondo dopoguerra ha realizzato, tra le altre cose, un curioso portfolio di scatti raffiguranti varie scale parigine. Quella che compare nella copertina di Confession de minuit costeggia la vecchia stazione ferroviaria di Ménilmontant, dalle parti di Belleville. È un caso, ma anche nella copertina della prima traduzione italiana del romanzo ci sono delle scale: si tratta della tela di un pittore americano contemporaneo, Ben McLaughlin, il quale nulla ha a che fare con questa storia, né con la capitale francese. Lo rende chiaro il titolo, che non sembra avere a che fare nemmeno con il dipinto, e anzi racconta una storia grottesca che è tutta esterna all’immagine: A Woman Has Flooded Her Home after Slashing a Waterbed with a Knife during an Argument with Her Husband in West Yorkshire., Curiosamente, però, anche lì appaiono delle scale, sulle quali salgono e scendono tre uomini in abito scuro. Non voglio eccedere nelle interpretazioni ma, come scriveva Alberto Savinio, «gl’incontri fortuiti […] mi danno ancora lo stupore dell’arcano», e la coincidenza mi ha fatto tornare in mente l’esprit de l’escalier, quella sgradevole sensazione che si prova quando ci viene in mente una risposta ben assestata , ma è ormai troppo tardi per pronunciarla.
Louis Salavin, l’inetto impiegato protagonista del romanzo di Duhamel, vive costantemente questa condizione. Licenziato in tronco dopo aver compiuto un gesto tanto innocuo quanto insensato, è risucchiato dentro sé stesso, confrontato con le proprie nevrosi. A incrociare la sua strada è una costellazione di personaggi precisamente caratterizzati in poche righe di racconto, mentre lui sfugge a un’identificazione precisa. Contraddittorio, insicuro, meschino, disonesto con sé e con gli altri, Salavin trascorre le sue giornate percorrendo una Parigi che sta cambiando forma ma le cui strade, tracciate e ritracciate quotidianamente dai suoi passi, si compongono in una topografia emotiva che aggancia luoghi e stati d’animo. Il Jardins des Plantes, il Pont d’Austerlitz, Rue Mouffetard, Rue du Pot-de-Fer sono solo alcuni dei luoghi attraversati dall’antieroe esattamente come lui dichiara di essere attraversato dai pensieri:
Ero visitato, attraversato, brutalizzato, violato da innumerevoli pensieri che subivo senza provocarli in alcun modo. Posso dire che pensavo? Posso attribuirmi questo merito? Non ero piuttosto il testimone impotente, la vittima? Non ero piuttosto il campo di battaglia devastato? No davvero, io non pensavo, non facevo nulla per pensare. Si pensava in me, attraverso me, verso e contro di me. Si pensava senza darsi pensiero di me, a mie spese, come si bivacca in un paese conquistato (p. 72).
Edito più volte in Francia, nel 2020 Confession de minuit è stato ripubblicato, a un secolo dalla prima uscita, da una piccola casa editrice della Franche-Comté, le éditions de la belle étoile. Nonostante la sua intermittente presenza in libreria, Duhamel, molto noto nella prima metà del Novecento, si è quasi dissolto nella memoria letteraria collettiva, e sicuramente ci sarà tempo e luogo per interrogarsi su questa sparizione. Per ora è forse più interessante sottolineare quanto il suo lavoro letterario sia andato ben oltre la scrittura, e lo abbia portato a esporsi pubblicamente in momenti cruciali della storia dello scorso secolo.
Duhamel fa parte di quella lunga e fertile tradizione di medici-scrittori tra i quali si può ricordare, tanto per restare oltralpe, anche Louis-Ferdinand Céline. Dopo la laurea in medicina, viene assunto da una casa farmaceutica e, pur avendo iniziato a occuparsi di letteratura (scrive poesie, fonda un gruppo artistico, tiene una rubrica sul «Mercure de France»), quando scoppia la Prima guerra mondiale e viene esonerato per un problema fisico, si arruola volontario come chirurgo d’urgenza. Da quest’esperienza drammatica trarrà il materiale per due romanzi, il secondo dei quali, Civilisation, viene pubblicato sotto falso nome e insignito del Prix Goncourt nel 1918.
Nel dopoguerra Duhamel abbandona la professione da medico per dedicarsi completamente alla letteratura. Inizia a lavorare a un ciclo di cinque romanzi intitolato Vie et aventures de Salavin, inaugurato proprio da Confession de minuit. Successivamente, saranno i dieci volumi di un’epopea familiare, la Chronique des Pasquier, a impegnarlo dal 1933 al 1945. Ma la sua produzione non è solo narrativa: è anche autore di saggi nei quali denuncia l’alienazione prodotta dallo sviluppo inarrestabile della tecnica e si fa promotore di un nuovo umanesimo. A questo proposito, esiste un piccolo aneddoto che coinvolge Luigi Pirandello: in occasione di un’intervista del 1930, lo scrittore agrigentino si farà trovare dal giornalista seduto in poltrona con Scènes de la vie future, pamphlet anti-americano di Duhamel, tra le mani.
Come Pirandello, anche il parigino fu un Accademico, ma di altra sorta: nel 1935 viene eletto membro della secolare e prestigiosa Académie Française e nel 1944 ne diventa «secrétaire perpétuel». In questa veste, durante la Seconda guerra mondiale compie una resistenza culturale contro l’occupazione nazista. Prima, in verità, aveva ripreso gli strumenti chirurgici ed era partito volontario verso un ospedale del fronte interno per aiutare i feriti civili durante l’esodo del 1940. Dopo la resa torna a Parigi, dove cerca in ogni modo di impedire la penetrazione di figure vicine al regime di Vichy nell’Académie. Insieme a Paul Valéry, Louis Gillet e François Mauriac, si impegna affinché i premi dell’istituzione siano concessi soltanto agli scrittori segretamente impegnati nella resistenza o comunque ad essavicini. È così che, gradualmente, vede mettere al bando la sua opera, finché nel 1942 gli viene vietata ogni ulteriore pubblicazione. Finita la guerra, otterrà numerosi riconoscimenti per la sua attività e continuerà a scrivere fino alla sua morte, nel 1966.
Pur essendo uno dei primi lavori dell’autore, in Confessione di mezzanotte già si percepisce l’intensità dell’indagine sull’uomo di fronte ai cambiamenti epocali del XX secolo, e non a caso nel 1950 è stato classificato da «Le Figaro littéraire» come uno dei dodici migliori romanzi della prima metà del Novecento francese. Duhamel è in ottima compagnia: nella lista compaiono, per citarne solo alcuni, Dalla parte di Swann di Marcel Proust, I falsari di André Gide, La condizione umana di André Malraux, La nausea di Jean-Paul Sartre. Con quest’ultimo l’antieroe di Confessione ha poi un rapporto quasi genealogico, ed è considerato ispiratore dell’esistenzialismo del solitario Roquentin, protagonista del diario filosofico del 1938. La sua influenza è chiaramente riconoscibile anche nei personaggi di Albert Camus, dal Meursault de Lo straniero al Clamence de La caduta, romanzo che con Confessione condivide anche la struttura della conversazione-monologo con un interlocutore che non prende mai la parola.
A impreziosire e rendere straniante la lettura di un romanzo la cui trama è, di fatto, estremamente semplice, quasi secondaria, è la sua forma, che costituisce l’epidermide del protagonista, l’unico tratto identitario di cui riceviamo informazioni nel testo. Salavin, che parla in prima persona, si incarna nelle sue parole, frammentate da ossessioni e nevrosi.Ripete, accumula le parole per tentare di capirsi e di farsi capire, per esprimere i suoi sentimenti spesso vergognosi e ignobili. La punteggiatura incidentata riproduce la sua conversazione monodica e affannosa con frasi breve, nette. Sono aspetti che hanno rappresentato punti critici nella traduzione in italiano, in cui digeriamo con maggiore fatica interpunzioni fitte e ripetizioni frequenti, e hanno richiesto un’attenta auscultazione del testo per valorizzarne la presenza o accordarne la riduzione.
In virtù della radicalità con cui la lingua aderisce a questo personaggio opprimente e oppresso, che tenta di ritrovare i propri margini di libertà nell’astrazione del logos non riuscendo a intervenire sulla realtà, si è cercato di conservarne il più possibile la sfumatura di senso e il suono, per seguire il ritmo delle frasi. Tutto ciò ha richiesto anche un’immersione nel tempo del racconto, spesso setacciando Google immagini alla ricerca di oggetti ormai fuori uso per non fraintenderne i traducenti.
Il fatto, poi, che tutto il romanzo si configuri effettivamente come un monologo rivolto a uno sconosciuto, e sia perciò inframmezzato da richiami, preghiere, domande retoriche all’anonimo «Signore», ha comportato un intervento organico di sostituzione. Il vous di cortesia, in francese, consentiva il doppio riferimento all’interlocutore finzionale e al pubblico reale, ma sarebbe apparso strano in traduzione. Lo si è perciò sostituito con il «lei», certo meno evocativo rispetto all’originale ma coerente nel mantenimento di un dialogo col lettore: «Mi rendo conto che lei, signore, non sa nulla. Bisogna che le spieghi tutto, che le racconti tutto. È insopportabile: quando si parla di sé, non si finisce mai» (pp. 14-15).
La poesia dei rivoli d’acqua lungo i marciapiedi, delle fogne, dei rifiuti di Parigi, descritta da Benjamin nei Passagenwerk e inquadrata da schiere di fotografi (Nadar, Atget, Moholy-Nagy) è la stessa che informa Confessione di mezzanotte. Viscere della città e viscere dell’uomo, nevrosi e mania: questo troverete nelle parole di Salavin.
Seguivo il marciapiede, camminando preferibilmente sul bordo di granito. Lasciavo che la punta del mio bastone si immergesse nel rivolo. Amo i rivoli lungo le strade. Scorrono sul lastricato e si asciugano a orari fissi, lo so; non nascono da una sorgente, ma da un rubinetto di ghisa. Ma che importa! Abbiamo la poesia che meritiamo. Ho trascorso parte della mia infanzia, nonostante gli sforzi della mia povera mamma, a pescare spille arrugginite e bottoni di stivaletti nei rivoli di rue Tournefort. Oggi non sguazzo più nell’acqua sporca, ma guardo ancora con attenzione i frammenti di stoviglie, la ghiaia, i minuscoli detriti che la corrente lava e gradualmente porta nelle fogne. Alla fine, anche il rivolo canta il suo piccolo lamento. Mi fa pensare a praterie, fiumi, paesi che non vedrò mai. È acqua civilizzata, acqua marcia. Ma è acqua, nonostante tutto! Il mare, i grandi laghi, i torrenti delle montagne! […] Che vuole? Non sono quasi mai uscito da Parigi; non ho visto nulla, non so nulla, sono un uomo qualsiasi, un uomo insignificante, sì, sì, insignificante. Non ho nulla di straordinario da raccontarle. Tutte le mie avventure sono accadute dentro di me. E lei è davvero buono ad ascoltarmi, io che non ho nulla da dirle, io che sono fatto di niente (pp. 65-66).